Il titolo dell’articolo allegato è “Istruzioni per il buon uso dell’analista”. Un argomento che sembra non avere niente a che fare con la musica. Tant’è vero che, se il sommo umorista Achille Campanile non avesse già compiuto un’impresa analoga nel suo meraviglioso “pezzo” intitolato Gli asparagi e l’immortalità dell’anima contenuto nell’omonimo volume (A. Campanile, Gli asparagi e l’immortalità dell’anima, Rizzoli, Milano 1980, p. 63 sgg.), io stesso avrei voluto cimentarmi nell’impresa di dimostrare che tra la musica e le “istruzioni” di cui sopra non esiste alcuna corrispondenza.

Tuttavia, a ben pensarci, le cose non stanno proprio così. Tanto per dire qualcosa, si può pensare che la seduta analitica sia una specie di partitura, un pezzo per pianoforte a quattro mani, o anche per due pianoforti (ce n’è di bellissimi di Mozart, Schubert, Brahms, Dvořák, Ravel…: prego controllare la discografia del favoloso duo dei fratelli Alfons e Aloys Kontarsky e quella, più recente, delle sorelle Katia e Marielle Labèque; ma io, che sono vecchissimo, traggo dalla mia prima giovinezza il ricordo del duo Gorini-Lorenzi). In essi gli esecutori ben raramente suonano all’unisono e molto più spesso si inseguono e si incrociano secondo le più diverse figure: per esempio, canone, canone inverso, retrogrado, perpetuo… Per non dire della musica aleatoria e della libertà che in essa è lasciata al caso.

Ma c’è di più: nelle sedute analitiche la musica viene composta nell’atto stesso di essere eseguita, e questo le rende spesso più aleatorie di quanto gli autori-esecutori desidererebbero. Bisogna fare di necessità virtù; il tempo ci trascina con sé, e quante volte paziente e analista restano mortificati come il sarto de I promessi sposi dopo il famigerato “Si figuri”!  Ma lì sta anche il bello: la verità non ha sempre tempo di imbellettarsi (io conosco però dei cosiddetti analisti che sono maestri nell’arte della cosmesi; oppure sono specializzati nel comporre innumerevoli riedizioni di quegli esercizi di tecnica pianistica che Muzio Clementi – il quale però era dotato di grande talento – chiamò Gradus ad Parnassum).

Mi viene ora in mente un pensiero che non vorrei pensare. Generalmente, nella cosiddetta musica classica brani anche di alta qualità si concludono per così dire frettolosamente e in modo prevedibile, cioè stabilito dalle regole della composizione. Sulla tonica  si viene sputati fuori dalla sala da concerto e si torna a casa. Nella tana. Dimenticando che F. Schubert aveva intonato per noi: «Dort, wo du nicht bist, dort ist das Glück: dove non sei, ivi è la felicità» (F. Schubert, Der Wanderer, D. 489).  Cosa succede? Succede che in qualche modo bisogna concludere. Se è pur vero che la musica trascende il tempo, il tempo – quello degli orologi, dell’invecchiamento organico… – continua a farsi i fatti suoi, pago della sua beata oggettività. Nel momento in cui la musica tace (in cui l’analisi si conclude, e la conclusione non può che essere severamente ironica: più consapevoli, siamo riconsegnati all’eterno gioco dei dadi che speravamo di aggirare), lo spazio sonoro viene riconquistato dal silenzio. La morte, becchino o levatrice, ci prende in consegna. (Mi sento di escludere da questo discorso gli ultimi quartetti di Beethoven, e altri testi che non sto qui a elencare).

Bisognerà forse allora fare affidamento su opere inconcluse? L’arte della fuga di J. S. Bach? L’incompiuta di F. Schubert? Documentano una impossibilità, o testimoniano una speranza? I testi interrogativi di F. Kafka, L’uomo senza qualità di R. Musil, che non riesce a finire? Per non dire di S. Beckett, i cui testi non possono finire per motivi per così dire intrinseci (un finito infinito?)?

In questa presentazione io do per scontata la qualità musicale dell’analisi. Ma è proprio vero che questa premessa non abbia bisogno di un sia pur vago tentativo di dimostrazione? Il seguito al prossimo numero.

 

ISTRUZIONI PER IL BUON USO DELL’ANALISTA

Scegliere bene l’analista è importante. Considerato che vi costerà almeno come un’auto di fascia medio-alta, è opportuno fare attenzione, concentrarsi, riflettere. Per esempio, vi interessa di più il motore, o la carrozzeria? La tenuta di strada o la capacità di sorpasso? Lo so, vi interessa tutto. Cercate qualcuno a cui affidarvi, qualcuno che accolga le vostre proteste e le vostre dichiarazioni di amore, che alimenti i vostri sogni e poi ve li interpreti. Un buon incassatore, che sia però anche una madre amorevole e un padre avveduto. Volete proprio tutto, perché a voi sembra di non avere più niente. Avete smarrito per strada i genitori, o non li avete mai avuti. Vi sentite orfani, abbandonati, sperduti, apolidi, arrabbiati, spaventati; siete vittimisti (ma voi pensate di essere semplicemente vittime) e rivendicativi, e così via. Avete aspettative grandiose e contemporaneamente pensate che non ne caverete niente, che lui (lei) sarà come tutti, che hanno sempre altro a cui pensare. E il tempo passa: al mattino non avete voglia di alzarvi, soffrite di colite, dormite male, non vi interessa nemmeno più fare l’amore, in ufficio (in studio, in reparto…) avete un’aria aggrondata, non riuscite ad assumere decisioni, ve la prendete con la segretaria (l’infermiera, la domestica, la moglie, il marito, i bambini…), inghiottite nervosamente l’ansiolitico (l’antidepressivo), e intanto vi pesa assurdamente in tasca quel foglietto sul quale avete annotato i numeri di telefono che il collega, l’amico, l’amante, il medico della mutua vi hanno suggerito (“Prova con questo/a, pare che sia in gamba”). “Telefono, non telefono…”. Passano giorni, a volte anni.

Primo consiglio. Telefonate. Se avete più segnalazioni, telefonate a tutti. E andate a trovarli. Vi costerà il prezzo di una seduta. Qualcuno (il più generoso, il più furbo, il più seduttivo?) il primo colloquio non lo fa pagare. Così li guarderete in faccia, questi analisti da cui rischiate di andare per qualche anno una, due, tre volte alla settimana. Secondo me, dovreste vederne almeno tre, così potete fare una graduatoria. Sì, ma in base a quali criteri? Come fate a stabilire chi è il più bravo, il più serio, il più buono? Per fortuna, si finisce con lo scegliere comunque, sulla base di qualche indizio irrisorio: la barba, gli occhiali cerchiati d’oro, un quadro alla parete… La vostra mente riflessiva vi informerà di alcune cose ben note: che il mondo è, e resta, inesplicabile e che perciò ogni scelta è un azzardo. Malgrado ciò, voi avete scelto. Dunque, avete affrontato/accettato il rischio, e così avete fatto un gesto di fiducia verso il mondo ma soprattutto verso voi stessi. Ne resterete sorpresi e spaventati. Vi verrà voglia di tornare indietro. Qualcuno lo fa. Se non lo farete è già un buon inizio. Avrete cominciato a guarire.

Immaginiamo ora che voi siate dotati di superiori capacità intuitive, o che l’angelo custode sia pronto a darvi i suggerimenti più efficaci, e che dunque siate attrezzati a fare la vostra scelta analitica in modo da ridurre al minimo le possibilità di insuccesso. Come dovrà essere il terapeuta ideale? Ovviamente io non lo so, ma come tutti ho delle simpatie e delle idiosincrasie. E allora, ecco qualche suggerimento.

Scegliete un analista che sia almeno un po’ nevrotico. In realtà, il consiglio è quasi superfluo: nessuno farebbe questo mestiere se non fosse (per pudore o ipocrisia, di solito si dice: “se non fosse stato”) sufficientemente nevrotico. Il club degli analisti è un campionario così variegato da giustificare, da parte di ciascuno, la nota battuta di Groucho Marx: “Non vorrei mai appartenere a un club che avesse gente come me tra i suoi soci”. Ma voi non sapete niente di tutto ciò. La cosa più grave è che forse ignorate persino chi era Groucho Marx. Quindi il consiglio resta valido. Il suo fondamento è omeopatico: similia similibus curantur. Provate a immaginare che a fare l’analista sia un tipo tutto d’un pezzo, come un mio amico che diceva: “Quelli che vengono da te hanno tutti le pigne nella testa. Bisognerebbe mandarli a lavorare nei campi”. Rischiereste di credergli. Senza pensare che l’agricoltura è in crisi.

A parte questo, il vero problema, come dicevo, è che il mio amico è tutto d’un pezzo, mentre io e voi siamo dissociati. Se voglio essere gentile con me stesso dirò che la differenza tra voi e me sta nel fatto che voi non lo sapete e io sì, e sono corso ai ripari. Detto in parole povere, esser dissociati vuol dire che voi siete stremati da un conflitto lacerante: una parte di voi va a destra e l’altra va a sinistra e tutte le vostre energie si consumano in questo tiro alla fune. Però, nel vostro candore, voi non vi accorgete di essere divisi in parti che tra loro si combattono e pensate di essere una entità unitaria. Di conseguenza, non vi raccapezzate più, ma questo non vi impedisce affatto di soffrire. Bisogna allora trovare qualche cosa che somigli a un accordo, a una mediazione, a un reciproco riconoscimento, e l’analista può darvi una mano. Ma non può farlo se prima non ha sperimentato la stessa cosa nella propria carne.

Solo così non rischierete di essere giudicati, come fate voi con voi stessi quando dite: “Ma possibile che sono arrivato a questa età e il risultato è che ho paura di prendere l’ascensore!”. Giudicarsi funziona come sprone, ma solo nei casi lievi o in situazioni particolari, come quando da ragazzi si doveva sostenere un esame, si aveva paura ma si diceva: “Ma sei cretino?!”, e si dava l’esame. Negli altri casi giudicare e giudicarsi aggrava solo la situazione, acuisce il conflitto e ci toglie anche quel residuo di autostima che ci era rimasto. Bisognerebbe aver pazienza, essere amorevoli, ma naturalmente non ce la fate. E’ possibile che l’analista vi spieghi a gesti come si fa.

A proposito di gesti, sarebbe opportuno che l’analista non fosse troppo intelligente. Non di rado narcisismo e intelligenza si alleano, e allora sono guai. L’analista vuol fare bella figura, sforna interpretazioni da manuale che il paziente non sa come utilizzare, e alla fine tutti e due si sentono frustrati. L’analista si era dimenticato che il paziente non voleva tanto essere capito (che è un processo intellettuale) quanto essere compreso (che è un evento globale, in cui sempre è coinvolta l’affettività). Se l’analista non è tanto brillante, probabilmente si occuperà più del paziente che di se stesso. Farà l’esperienza del non capire, e il mettere in comune il non capire è in genere un ottimo collante.

Fondamentale è poi che l’analista sia un po’ distratto e, se in età, con un modesto deficit della memoria a breve termine. E’ però assolutamente necessario che distrazione e oblio siano naturali, privi cioè di ogni intenzionalità pedagogica o di qualsivoglia altro genere. Ma la comprensione allora? Certamente c’è, ma ognuno ha i suoi limiti, ad impossibilia nemo tenetur, e insomma non c’è niente da fare, “ho dimenticato il sogno che lei mi ha raccontato l’altro ieri”. Questo è un momento cruciale. L’analista, che pure ti vuole bene, ti permette, senza propriamente desiderarlo, di affacciarti da una finestra con vista sulla solitudine. Non puoi fidarti di nessuno, è la prima reazione. Ma poi, a ben pensarci, è una liberazione: sei esonerato dall’obbligo di dipendere da chicchessia, e non perché gli altri sono infidi ma perché sono dei poveracci come te, che annaspano nella nebbia del mondo. Se l’angelo custode aiuta, puoi renderti conto che la solitudine è un dono, perché la solitudine è sorella della libertà. Puoi capire che certamente il mondo è difficile e generatore di sofferenza, ma che la sofferenza è un fenomeno fisiologico, non una patologia che ha colpito soltanto te.

Capirai anche che essere traditi è un concetto relativo. L’analista si è distratto, stava pensando alla fidanzata, e ti ha lasciato per un po’ solo al mondo. Non ha tradito te, ha tradito il tuo bisogno di avere costantemente accanto un simulacro materno. E se l’analista non è perfezionista e non è anche lui un figlio di mamma, l’affare è fatto. Non sarà una mamma perfetta (ne esistono?) e non si immaginerà che tu debba essere il figlio prediletto, il bastone della vecchiaia. Sarai uno che passa, come anche lui sta passando, e con cui si è fatto (affettuosamente) un pezzo di strada.

Per tornare ancora un momento sul tema della solitudine, non va dimenticato che la solitudine aiuta la concentrazione. “Dopo la morte di Rabbi Moshe (Moshe di Kobryn), Rabbi Mendel di Kotzk chiese a uno dei suoi discepoli: «Quale era la cosa più importante per il tuo maestro?» Il discepolo pensò un po’ e poi rispose: «Quello che stava facendo in quel momento»”. Senza prenderla troppo alta, mi sembra che Rabbi Moshe pensasse che ciò che conta è il momento nella sua assolutezza, e ciò che in quel momento tu stai facendo. Tutti sappiamo che l’analisi finirà e tu dovrai tornare ad arrangiarti come prima, forse un po’ più persuaso che il giardino dell’Eden si trova solo nel regno di Utopia ma che in quell’orto un po’ dissestato in cui viviamo è ancora possibile piantare qualche cavolo. Tornerai a essere come prima, e poi morirai. Anche l’analista morirà. Questi sono pensieri oziosi e vittimistici. Il destino crudele. Ma quale destino crudele! Rabbi Moshe sapeva che quando ci si concentra interamente in qualcosa (pelare le patate, correggere delle bozze, amare qualcuno) il tempo scompare, e con esso la morte, e noi entriamo in contatto col tutto. Certo, poi torneremo dentro quello scialo di triti fatti che spesso è la vita. Ma che importa, sappiamo di avere degli appuntamenti con altri momenti di concentrazione assoluta. E poiché questi consistono in una totale dedizione al compito, essi ci insegnano anche che è più importante amare che essere amati.

Questa sarebbe una buona conclusione di un’analisi. Ma non bisogna esagerare. Anche un po’ meno di così andrebbe bene. Forse avete dimenticato di non possedere quella lungimiranza che per scherzo io vi ho attribuito. Sceglierete l’analista in un modo più o meno casuale. Se pensate sino in fondo questo pensiero apparentemente inquietante, toccherete con mano una conseguenza in esso implicita. Che da un lato è fondamentale fidarsi perché altrimenti la vita diventa un inferno; ma che dall’altro è bene che ce la mettiate tutta – “Aiutati, che Dio ti aiuta” – e che il più dipende da voi, anche perché non si sa in che razza di analista incapperete.

Augusto Romano

 

Illustrazione ad opera di Federico Lucidi

Torna in alto