Titolo : Le non-cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale.
Autore : Byung-Chul Han
Casa editrice : Einaudi
Pagine : 121
Anno : 2022
Se fosse un’immagine : un orsetto di peluche che tiene un kalashnikov
Se fosse una musica : l’ouverture del Guglielmo Tell di Rossini nella versione al sintetizzatore moog presente nella colonna sonora del film “Arancia meccanica”
Per approfondire : la “recherche” di Proust
C’è davvero nella contemporaneità una malattia che affligge la barriera di contatto con le cose e gli altri secondo il filosofo coreano-tedesco Byung-Chul Han. Da ammirare la sua scrittura per lucidità, brevità, capacità di spiegare concetti di filosofia teoretica con esempi pop e qualche gradevole ingrediente di memoir.
Questa malattia è affrontata da molteplici punti di vista che si concentrano sul mutato rapporto con gli oggetti, i viaggi, le immagini, i libri, le fotografie e con le visioni e le aspettative che il soggetto ha nel proiettarsi nel futuro. Le attuali forme dell’intelligenza e delle cognitività sembrano quindi focalizzarsi sul calcolo e sull’efficacia, retrocedendo quindi secondo l’autore ad uno stato primario, laddove l’intelligenza umana, storicamente, è invece perennemente immersa in un bagno di stati d’animo capace di commuoverla, e che non può essere disgiunta, “anima mundi nel valle del fare anima”, dal processo di pensiero causale. Interessantissime sono in questo senso le digressioni ontologiche sull’oggetto libro, erotizzato e dotato di vita propria, diverso dall’e-book portatore di informazioni disincarnate; addirittura un capolavoro che vale da solo questo testo è il capitolo che grazie ai lavori di Roland Barthes sulla fotografia ci spiega qual è il significato della valanga di immagini nella contemporaneità mostrando la differenza ontologica tra immagine analogica e digitale.
E’ un mondo di spettri quello che ci mostra il filosofo, spettri che si cibano delle non-cose, delle non-relazioni, delle non-immagini; c’è davvero un soggetto dall’altra parte o è solo un’illusione? uno spazio vuoto riempito da un fantasma? Dalla profondità della sua psicosi se lo chiedeva già sul finire del secolo scorso Philip K Dick: chissà cosa vede uno scanner? Dentro la testa, dentro il cuore? Vede fin dentro di me? Dentro di noi? In modo chiaro od oscuro? In questo senso questo lavoro può essere un momento di profonde riflessioni cliniche rispetto alle implicazioni fantasmatiche concernenti tutte le forme di relazione virtuale che da un po’ affollano le stanze di analisi.
Gli accoglienti, lucidi, ludici e comodi device, ci seducono, ma invece dell’autenticità di un altro soggetto, riceviamo solo un’altra informazione, deperibile dopo poco, prima di un altro infernale giro di scroll informativo (curioso come il termine “infoma” somigli tanto effettivamente a una malattia). Gli oggetti proustiani, altra ontologia, hanno un colore, una narrazione, un peso sensibile (il giornalista Gianni Mura che continuava a scrivere con una Olivetti mica tanto portatile). Ancora una volta, analiticamente, il silenzio, l’attesa, l’ascolto attivo, la lentezza, il dubbio, l’indugiare e ancora tanto silenzio. Non c’è secondo l’autore un altro modo per abbassare la febbre di questa malattia. Il consiglio è di leggerlo spegnendo lo smartphone, sotto un ombrello molto analogico, ognuno si scelga il suo (il mio era una terrazza al sole con un bel bianco freddo), per proteggersi da quella che l’autore chiama “infosfera”.