Stamani ho appeso un nastro alla mia porta di casa.

Contributo di una psicologa-analista per la scomparsa di Gino Strada

di Simona Massa Ope (Psicologa analista dell’AIPA)

 

Stamani ho appeso un nastro alla mia porta di casa, il nastro bianco con il logo rosso di Emergency per il lutto di Gino Strada, deceduto a Rouen, nel nord della Francia, il 13 agosto 2021. Credo si possa affermare che la sua morte rappresenti un lutto personale per ciascuno di noi, per le persone che condividono i suoi valori umani e la lotta per i diritti umanitari.

Come ogni perdita, che non si voglia negare, rimuovere, dimenticare, o solo formalmente celebrare in maniera transeunte, la perdita di Gino Strada implica, a livello personale e collettivo, un lavoro psichico di elaborazione, il lavoro del lutto, necessario affinché il vuoto che ha lasciato nella comunità e nelle coscienze si colmi della memoria e del significato delle azioni da lui compiute durante la vita. Le sue imprese rappresentano un’alta testimonianza della capacità di rivolgere lo sguardo all’altro, di sentire l’altro come un valore da salvaguardare, percependo la sua sofferenza, la sua necessità, la sua derelizione. È alta testimonianza di coraggio, il coraggio di stare nelle situazioni estreme, come è estrema la guerra nella sua disumana distruttività, per organizzare e porgere cure reali, rischiando tutto. Amore, coraggio, altruismo: sono queste le parole, perlopiù desuete nel mondo contemporaneo, che emergono dall’opera di Gino Strada e degli uomini e donne di Emergency, che dedicano la loro vita a salvare la vita.

Ogni perdita, per quanto incolmabile, lascia spazio a nuove possibilità, e c’è una possibilità di integrazione nell’essenza di ogni cosa buona, bella e giusta che muore, se “distillata”: la possibilità di generare coscienza, consapevolezze, senso di responsabilità, riconoscere e praticare principi fondanti la nostra umanità. Vita nuova per questo mondo in “emergenza cronica”: sanitaria, sociale, ambientale. È questo l’ossimoro che ormai ci attanaglia.

Gino Strada era dichiaratamente, lapidariamente contro la guerra. Questo vuol dire scegliere la vita ogni giorno, ogni istante, non solo nei grandi bivi della storia o nei grandi conflitti del mondo, vuol dire stare dalla parte della vita a fronte dei continui, insidiosi e impercettibili input di morte, che quotidianamente assorbiamo senza accorgercene, tanto assuefatti siamo. Scegliere la vita è dunque un’opera quotidiana di elaborazione della distruttività e del male, e implica uno stato di attenzione lucida alle mille forme in cui la distruttività si manifesta. Questo significa diventare “operatori di emergenza”, anche senza essere né medici né epicamente eroici: riconoscere la vita e

sceglierla ogni volta, capillarmente. Questo può accomunare sia il versante laico che religioso della collettività.

Nel film di Terrence Malick La sottile linea rossa (USA 1999), tratto dal romanzo di James Jones del 1962, è rappresentato il divario continuo tra la vita e la morte, attraverso l’incessante flusso di coscienza dei soldati, interiormente divisi tra struggente desiderio di pace e fatale compromissione con l’energia distruttiva della guerra: da un lato, le colline infuocate della battaglia con i suoi orrori e le sue atrocità inimmaginabili, dall’altro le colline azzurre della pace, dove le donne aspettano solitarie – come solo l’attesa può esserlo – di poter affermare e insediare sulla terra valori diversi per questa umanità: una nuova etica dell’alterità.

Per uno strano caso, il giorno prima dell’annuncio della morte di Gino Strada, ho potuto vedere un recente film diretto da Sean Penn, Il tuo ultimo sguardo (The last face, Usa 2016), la storia di un chirurgo d’emergenza che opera in Africa sui vari fronti della guerra, in mezzo alle tragedie che nascono dall’ingiustizia sociale e dalla disperazione. Diverse idee sono affermate in questo testo cinematografico: il divario etico e strategico tra una politica dei diritti umanitari e l’azione concreta, sul campo, per salvare singole esistenze; una visione dell’amore che supera i romanticismi di cui siamo ipernutriti – gli intimi egotismi della coppia, i bastioni della famiglia tradizionale – e si afferma come valore superiore, come apertura alla presenza dell’altro, il cui volto, il cui sguardo chiama alla responsabilità – come è detto in tutto l’impianto filosofico di Emmanuel Lévinas.

Ma c’è un’idea di vita, di senso della vita, che si afferma, sia pur in maniera ingenua ed embrionale, attraverso le parole del protagonista, un senso della vita che ritorna nell’alveo del suo nucleo originario, alla sua semplicità: ovvero, una adesione alla creazione come bene supremo e come fonte di ìnesauribile meraviglia, che ci fa alzare lo sguardo da noi stessi – finalmente! – per osservare ogni forma dell’essere, persino una fila di formiche che salgono sul tronco di un albero – come dice nel film il medico dell’emergenza – e trarne significato e gioia di esistere.

In quanto psicologa analista, sento, tra le molte che attengono al nostro ruolo, la responsabilità di aiutare me stessa e i pazienti a relativizzare lo sguardo, unilateralmente incentrato su se stessi, sui nostri malesseri, sul fascino della nostra interiorità, per sollevarlo a osservare il mondo con interesse e cura, con tutte le alterità che lo abitano.

Esiste un’unica realtà, ed è quella unitaria tra mondo interno – il cui spirito ci ha così profondamente assorbito e impegnato in questo secolo in quanto analisti – e mondo esterno. È questa la “strada” che il lutto di Gino Strada mi fa intravedere, finalisticamente.

 

 

Foto di Matteo MasoliniGino Strada #3, CC BY-SA 2.0, Collegamento

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